Mother!: al Festival di Venezia la Bibbia in versione horror di Aronofsky. La recensione

È il film che ha più diviso i festivalieri, beccandosi una sonora quota di fischi in proiezione stampa, ma anche molte adesioni critiche entusiaste. Per noi è il film con le immagini più potenti del 2017 assieme a Dunkirk

Mother! al Festival di Venezia

Intanto bisogna dire che Mother!, il controverso film di Darren Aronofsky presentato ieri al Festival di Venezia e accolto malissimo dalla stampa, non potrà più essere lo stesso film per nessun pubblico ora che è stato visto e interpretato e raccontato (stiamo per farlo anche noi). E infatti se foste stati in sala ieri mattina avreste visto e sentito gran parte degli accreditati inciampare verso l’uscita dopo essere stata travolta dalla tempesta di immagini dell’ultima parte del film, e domandarsi (irritata, sarcastica, spaesata) che senso avesse quel caos, che giustificazione ci potesse essere per una parte finale così lunga e disordinata, per un tale sfoggio di surreale crudeltà.

È interessante perché il problema di Mother! è semmai opposto, ovvero che alla fine ci sia nell’operazione del regista di The Wrestler, qui anche sceneggiatore, una qualità allegorica fin troppo esplicita, cioè un progetto già finito sulla carta e poi semplicemente svolto. Questo significa che, una volta esaurita l’interpretazione, all’opera resta poca vita, non c’è molto altro spazio per pensarla, non c’è libertà. Sarebbe una cosa imperdonabile se le immagini non fossero così potenti, se la messa in scena non fosse la più impressionante per la sala vista in questo 2017 accanto al Dunkirk di Nolan. Si esce con suggestioni, anche disturbanti, che restano a lungo.

Da qui partono gli spoiler: che stavolta non significa raccontare i colpi di scena (ce ne sono? Mah), ma leggere il film, pronunciarne la struttura, pensarne le ragioni. Se volete preservarvi, salvate il link e poi riprendete da qui.

Allora, Aronofsky prende Rosemary’s Baby e pensa: nel 2017 non è possibile raccontare ancora il diavolo come un uomo con gli zoccoli e le corna. Così fa un ragionamento prima teologico e poi scientifico: il diavolo è il mondo, cioè è la sua spontanea corruzione, il principio (anche fisico, per chi conosce la materia) per cui l’universo crolla sotto la sua entropia, l’ordine si disfa, e quel disfarsi segna il passare del tempo.

Solo che se il diavolo è questa roba qua, non puoi più metterlo dentro il salotto di un appartamento borghese, di un condominio qualsiasi. No, se il diavolo è questa roba qua, devi parlare dell’universo, una cosa che ovviamente puoi fare solo per metafore.
Ah beh, hai detto niente. Solo un matto, uno che ha già fatto un film ampiamente spernacchiato proprio a Venezia (e gemello di questo) come L’albero della vita / The Fountain può infilarsi sereno in un’impresa simile, può dare in pasto ai critici e al pubblico un’opera che parla di creazione e corruzione, vendendola nel frattempo come un horror home invasion, e una riflessione sul ruolo dell’artista e della sua Musa (strepitosa Jennifer Lawrence). Cioè un’opera che vuole fare filosofia attraverso il genere.

E qui salta fuori l’altra grande intuizione del film, sempre tutta teorica. Ovvero: questa cosa qui Aronofsky la racconta attraverso la Bibbia.
Ma proprio la Bibbia, la sua sinossi, Vecchio e Nuovo Testamento. E quindi: Adamo e la sua costola, Eva, il frutto proibito, il paradiso perduto, Caino e Abele, il diluvio universale, e via via fino ad arrivare (in modo un po’ caotico, quello sì) al Figlio di Dio, gli uomini che lo uccidono e ne mangiano la carne.
Tutto quanto dentro lo stesso film.
Anzi, di più: dentro la stessa casa, una villetta, dove alla fine entra letteralmente tutto il mondo, le rivoluzioni di piazza, le guerre, la devastazione ambientale, la povertà, la fame, tutta la vanità possibile, tutto l’orrore immaginabile.

Ora, già a leggerlo deve fare strano: cioè, vi pare possibile raccontare questa cosa qui attraverso il rapporto tra uno scrittore e sua moglie, senza mai far mettere alla protagonista il naso fuori dal portico, e mantenendo intatta la coerenza stilistica e di tono del racconto? Pare di sì, si può, Aronofsky l’ha fatto.
E il problema non è nemmeno tanto che il suo film, tecnicamente sopraffino, sia ambizioso. Il problema – per chi fischia o molla insufficienze – è che quell’ambizione è manifesta, senza scampo e senza alternative, cioè finisce con se stessa.

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