Ha gli occhiali da vista infilati nel colletto della polo, sottili, un poco storti, come tutto il resto: il naso, il mento, le palpebre a mezz’asta. Un corpo ingombrante e allenato, ciondolante o minaccioso a seconda del vigore che ci mette, la sua assicurazione per ruoli opposti.

Non ha mai vissuto negli Stati Uniti – «Sei mesi al massimo, per un film» – e infatti ogni tanto inciampa sull’inglese, come quando vuole dire “hunger”, cioè fame, ma ha paura di aver detto “anger”, cioè rabbia. Parla tranquillamente di tutto, politica e amore compresi, i quattro film con Penelope, il primo addirittura a vent’anni, e cos’è cambiato adesso che sono una coppia, che hanno dei figli.

Io, non so perché, gli guardo i piedi enormi dentro le sneaker bianche, sono ipnotizzato dal modo in cui sta seduto e occupa lo spazio, a gambe larghe eppure misteriosamente discreto. Mi pare lo stereotipo esatto del tipo pacifico per manifesta superiorità, quei ragazzi placidi che non faresti mai arrabbiare.

L’incontro accade sulla terrazza del JW Marriott, uno degli alberghi quasi moderni e quasi d’epoca della Croisette. Ci sono divani viola, cuscini bianchi, sedie leggere e un ragazzo che serve bibite e caffè.
I volti si scuriscono contro il panorama sereno di mezzogiorno, diventando silhouette alla prova del cielo.

In Everybody Knows lui e la Cruz sono ex amanti che si portano dietro vecchi segreti, e si trovano a doverci fare i conti quando la figlia di lei viene sequestrata, durante il matrimonio della sorella.
Lui è affascinante e indifeso, quasi sorpreso dal modo in cui non può sottrarsi al dramma che travolge tutto in un attimo; a un certo punto diventa perfino buffo, tanto che alcuni in sala si sono messi a ridere.
Lei è travolta dal dolore sospeso, dall’ipotesi della perdita, come succede a Winona Rider in Stranger Things, stesso ruolo.

Come in tutti i film di Fahradi c’è un mistero, quasi un giallo, che alla fine trova risoluzione, ma è nel processo, nello svelamento dei personaggi e dei loro paletti morali, che il film ha la sua ragione.
«Al Pacino è il mio dio, ma Fahradi fa senz’altro parte della stessa chiesa», dice Bardem, che sorride sempre come un ragazzino.
«A me, fin da piccolo, piace studiare le facce, interpretarle: ora recito, da bambino disegnavo».

L’intervista sarà pubblicata su Best Movie in corrispondenza all’uscita italiana del film, distribuito da Lucky Red.

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