Comincio con un elenco, passateci sopra gli occhi per qualche secondo.

Asghar Farhadi, Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, Stéphane Brizé, Jean-Luc Godard, Ryusuke Hamaguchi, Christophe Honoré, Eva Husson, Jia Zhang-Ke, Kore-Eda Hirokazu, Nadine Labaki, Lee Chang-Dong, Spike Lee, David Robert Mitchell, Jafar Panahi, Pawel Pawlikowski, A.B Shawky, Kirill Serebrennikov.

Se non siete cinefili di professione, e magari con un background universitario, sarete almeno sorpresi nel sapere che si tratta dell’elenco dei registi in concorso a Cannes 2018 (qui tutto il programma). Se poi lo farete leggere a qualche amico appassionato, magari uno di quelli che al cinema ci vanno una decina di volte l’anno, hanno una discreta collezione di blu ray e amano condividere opinioni sul cinema come lo farebbero sul cibo o la politica, probabilmente nel treno dei nomi ne riconoscerà a stento un paio.

Niente Dolan, niente Guadagnino. Niente Assayas. Niente Audiard. Niente Leigh. E, a causa della faida con Netflix, niente Cuarón (e chissà cos’altro). E non parliamo proprio di nomi ancora più commerciabili come Allen o Sollima. Lavori ancora in corso? Ne sapremo probabilmente di più dopo l’annuncio dei titoli della Quinzaine.
In ultimo, addio alla realtà virtuale e alle serie tv, delegate a un Festival autonomo, appena terminato.

Che giudizio si può dare su un programma del genere, prima di vedere i film? Che c’è un problema. E il problema non è tanto nella comprensibile conferma di un certo numero di autori d’essai quasi sempre capaci di opere di grande qualità (Asghar Farhadi, Kore-Eda Hirokazu, Stéphane Brizé, Lee Chang-Dong e naturalmente Jia Zhang-Ke e Godard), ma nell’esubero in competizione di singolarità e scommesse – ovvero di cinema “estraneo” a qualsiasi logica che non sia quella della scoperta e dell’avanguardia – rispetto alla certezza di autori che occupano una casella dentro un immaginario festivaliero più “largo” dei convegni accademici.
Una certezza che qui è rappresentata solo da Matteo Garrone (per noi italiani) e, in parte, da Spike Lee.

Così, a carte disposte in tavola, ci ritroviamo a sperare in un ingresso tardivo in selezione di Von Trier e Sorrentino, oltre magari a qualche colpo di teatro dell’ultim’ora. Mentre l’unica proiezione sfacciatamente sopra le righe pare il nuovo thriller del regista di It Follows, Under the Silver Lake, che sarà prevedibilmente preso d’assalto, anche perché conta una delle due star americane del programma (l’altra è Adam Driver), cioè Andrew Garfield (di cui i media spolperanno anche le ossa).

Quello che ne risulta è un Festival per pochi, ma nell’ottica e nella misura in cui qualsiasi Festival ha i suoi “pochi ma buoni”, anche quello della salsiccia di Abbiategrasso. E il guaio è che tutto questo sembra far parte dello stesso disegno culturale, dello stesso snobismo orgoglioso che bandisce i selfie sul red carpet e ostracizza i film di Netflix.

Ma chi ne dovrebbe beneficiare? Quale credibilità vuole tutelare il Festival, nel momento in cui fa di tutto per rinunciare ad averne una condivisa con il pubblico? Ovvero: da chi vuole tutelare la propria immagine, se è il primo a farla a pezzi, azzerando glamour e divismo (sulla Croisette!), rifiutando l’eco degli scatti amatoriali, disprezzando il piccolo piacere colpevole e vagamente proletario dell’occasione in cui indossare il papillon e farlo sapere a casa?
E ancora: se Cannes diventa Berlino (o Locarno), chi ne erediterà il ruolo? Viene quasi da dire che forse è ora che sia Netflix a organizzare un Festival primaverile…

E così, mentre Venezia si adegua sempre di più a un’idea festivaliera contemporanea, multiforme, di alta qualità ma aperta al pop d’autore, Cannes si scava la sua piccola fossa buia.
Come fosse orgogliosa della sua lucente invisibilità.